Messa del crisma – cattedrale di Imola

In questa Messa, cari sacerdoti, siamo invitati a rinnovare le promesse che abbiamo emesso durante la nostra ordinazione presbiterale. Con particolare impegno e commozione questo rito viene compiuto da quanti tra noi ricordano un anniversario significativo: il sessantacinquesimo (monsignor Pietro Mongardi), il sessantesimo (monsignor Giovanni Signani e don Luciano Melandri), il cinquantesimo (don Nicola Silvestri), il venticinquesimo (il vicario generale, don Andrea Querzè). Lo compiamo davanti ai diaconi, a numerose consacrate e al nostro popolo, avendo sullo sfondo la celebrazione della Passione di Nostro Signore non perché ci costa promettere, ma perché così egli ha voluto manifestarci la sua predilezione. E noi sappiamo che non la ritira neppure di fronte alle nostre infedeltà.

Con il suo atteggiamento, il Signore non ci mette tranquilli, ma al contrario ci scuote e ci commuove, sicché non ci è concesso di accomodarci nella mediocrità, nel tradizionalismo, nella pigrizia. Così, i difetti del vescovo e dei confratelli non possono essere messi avanti come un pretesto per continuare a fare di testa propria.

Essere ministri della salvezza dell’umanità significa non solo reggere le parrocchie, ma anche sforzarsi di essere esemplari nel cammino di conversione, nella collaborazione pastorale, nello zelo per l’unità. Infatti ciò che difetta non è l’efficienza organizzativa, ma quell’unità che si combina con la varietà. E noi sappiamo di essere stati scelti per fare unità. Proponiamoci dunque di lavorare non per noi stessi e chiediamo concordemente questa grazia: di essere più attenti gli uni agli altri, di sostenerci a vicenda, prendendoci cura soprattutto di quelli che (come il nostro vescovo emerito) sono indeboliti dall’età, dalla malattia, o dal sovraccarico degli impegni e dalle prove spirituali. Non meravigliamoci, fratelli, di andare soggetti alle prove e alle tentazioni. Nel nostro tempo, ai preti e ai cristiani in genere vengono chiesti forse meno penitenze, meno ascesi corporale, meno digiuni, ma non meno prove.

Stiamo passando da un modo di essere preti ad un altro, da una forma di ministero ad un’altra, da una spiritualità ad un’altra. Se finora il parroco personalmente era visto come il motore della vita parrocchiale, sempre più lo saranno le piccole comunità o gruppi di famiglie, con tutta la difficoltà insita nella loro formazione e assunzione di responsabilità. Non ci aspettiamo una fioritura spontanea di corresponsabilità, ma vediamo i frutti dello Spirito Santo, che opera invisibilmente e ci sorprende. La nostra fede è continuamente sollecitata, sicché da una parte non può essere data per scontata, dall’altra ci fa vivere.

Carissimi sacerdoti e cari diaconi, talvolta si sente il bisogno di ribadire che la Chiesa non è della gerarchia, ma del suo unico sposo e Signore, Gesù Cristo. È giunto il momento di farne esperienza in modo tangibile, vivendo di fede e sforzandoci di cogliere i segni dei tempi per non cedere alle tentazioni del pessimismo e dell’accomodamento sinonimo di resa. Non esitiamo a riunirci spesso, per confrontarci pazientemente sulle strade da scegliere di volta in volta, ripetendo – quando ci troviamo ad un bivio – la parole dell’apostolo Pietro: «Signore … tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,59s).