Di seguito l’omelia integrale del cardinal Gambetti pronunciata durante la messa di apertura del Giubileo diocesano del 24 ottobre 2021

Fratelli carissimi, abbiamo aperto la porta santa di questa cattedrale, la cui bellezza, semplice e sontuosa a un tempo, è segno eloquente della presenza di Dio in mezzo a noi. In questo anno giubilare, che comincia solennemente nel giorno della dedicazione di questa chiesa, Dio vuole fare grazia al suo popolo, vuole riversare doni straordinari sulla “brava gente” — pur sempre peccatrice — che è nella Diocesi di Imola. Ne gioiamo, anche se stiamo vivendo un passaggio epocale che ci disorienta, un passaggio nel quale le nostre chiese si stanno progressivamente svuotando e sentiamo affievolirsi le forze, forse anche il senso stesso di appartenenza ecclesiale.
Spesso risuonano nei nostri ambienti alcune domande capitali: le chiese non sono più un segno espressivo della fedeltà di Dio e della sua vicinanza? Sono gli uomini che non cercano più Dio? Personalmente, ritengo che oggi siano superate se non addirittura fuorvianti.
Come ben sappiamo, nel 1271 la cattedrale fu consacrata dal vescovo Sinibaldo ed accolse le reliquie del martire Cassiano, testimone eminente della fede del popolo imolese che già nel III-IV secolo aveva aderito al Vangelo.
Noi siamo parte di questa storia di fede. Ciascuno di noi potrebbe narrare un ricordo, un incontro, un gesto d’amore legato a questa Chiesa, alla sua Traditio apostolica. Personalmente ne custodisco diversi nella memoria, con tanta gratitudine. È così che in questa circostanza ci ricordiamo innanzitutto di noi, della nostra particolare vocazione: in quanto battezzati, fratelli e sorelle carissimi, noi siamo il tempio di Dio, luogo in cui egli vuole dimorare, prendere posto, rimanere.
Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi – mènein, alla lettera: dimorare, rimanere — in casa tua, nella tua intimità.
Dio desidera vivere in noi e in mezzo a noi. Desidera riversare la vita in grembo a ciascuno e far fiorire la gioia, l’amore, la pace tra tutti i suoi figli. Questo il senso di quest’anno giubilare! Abbiamo udito proclamare nella prima lettura: stranieri e custodi dell’alleanza condurrò sul mio monte santo e li colmerò di pioia nella mia casa di preghiera… per farli divenire “fratelli tutti”, potremmo aggiungere parafrasando. Quando vedremo compiersi il desiderio di Dio?
Siamo entrati in chiesa con la gioia di sentirci “a casa”. Dobbiamo sentirci provocati da tale sensazione, da tale emozione: la nostra vocazione primordiale è stare alla presenza di Dio, contenerla in qualche modo, e quindi portarla… come Maria, la ferens verbum. Innanzitutto da lei vogliamo imparare l’accoglienza del Dio umile che ripete: «Oggi devo dimorare a casa tua». Maria ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. Semplice. Lei non si lasciò distrarre dalle divisioni interne ad Israele (farisei, sadducei, zeloti), né si perse in inutili lamentele per il giogo romano o perché l’economia non andava bene o perché occorreva guardarsi da possibili contagi (ad esempio di lebbra) o perché i vicini di casa non erano rispettosi. Maria ha portato tutto il peso della drammaticità dell’esistenza, ha investito la vita su altro: sulla promessa racchiusa nella Parola di Dio che vuole adempiersi.
Obiezione: ma noi non siamo puri e innocenti come la Madonna, siamo come il pubblicano Zaccheo, o come le prostitute, la samaritana (straniera di un’altra religione); e siamo poveri, storpi, ciechi… Le pareti del nostro cuore, a causa della fragilità umana, sono offuscate, rovinate, crepate. I “locali” della nostra anima si sono svuotati e possono aver ceduto alla tentazione di essere diventati addirittura un luogo inospitale per il Signore e l’ascolto della Sua parola… Il nostro limite produce questo. E quindi?
Bene. Lì è Dio, non altrove. Occorre un atteggiamento come quello di Zaccheo. Egli ha dato credito a Gesù e ha vissuto se stesso come risposta al desiderio di Dio, che ripete nell’oggi di questo anno giubilare: «voglio incontrarti. Ti incontrerò?». Dio sta alla porta e bussa; desidera riversare in noi il suo amore, la sua gioia, senza chiedere contropartita, nemmeno l’osservanza della parola (quasi dovessimo mettere in pratica delle norme); solo chiede umilmente di acconsentire alla Sua promessa di compiersi in noi.
Chi accetta la sua proposta e lo accoglie reagisce come Zaccheo, perché nell’incontro con Gesù la vita che deriva da Dio diventa fluente e incontenibile in lui. D’altra parte, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia ln senso fisico, un figlio, sia nel senso dl procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. L’incontro con Gesù, epifania dell’amore del Padre, dona la vita che vince la morte. Per sempre.
Guarda caso Zaccheo, in ebraico Zakkai, significa “puro, innocente”. Non è l’ironia della sorte. Proprio Zaccheo ci offre testimonianza di quello che compie l’accoglienza di Gesù in casa. Egli si espropria, con gratitudine e gratuità si rivolge agli altri, come uomo libero e generoso. Una estroversione del cuore, della mente e dei gesti. Che bello! È il cielo sulla terra.
Il nostro cuore è il primo altare; la preghiera personale è la porta del culto ecclesiale. Vano sarebbe il nostro ritrovarci insieme se il nostro intimo non si scoprisse abitato ed infiammato dalla Sua presenza in un dialogo profondo, o se nella stessa preghiera comunitaria non ci fosse in sottofondo la preghiera del cuore, nel segreto.
Sarei tentato di fare per noi delle attualizzazioni esistenziali, ma non voglio che l’attenzione si sposti sul fare e resti sull’essere: essere dimora di Dio. Non lasciamoci distrarre da desideri che non siano iscritti nel desiderio di Dio. Come preghiamo quotidianamente — sia fatta la tua volontà (cioè si faccia il tuo desiderio) come in cielo così in terra — così dobbiamo desiderare: la terra dei nostri cuori diventi tutta cielo! E i nostri corpi divengano sacrificio vivente a Lui gradito.
Le chiese si svuotano. Ne prendiamo atto, ma non piangiamoci addosso! Sono illuminanti le parole dell’Apostolo appena proclamate: «Voi siete l’edificio di Dio. […] santo è il tempio di Dio che siete voi». Questo luogo benedetto (che siamo noi), il nostro corpo possa essere percepito ed amato da coloro che non entrano più nelle chiese come un luogo ove si “sta alla presenza di Dio”, dove Gesù, vero tempio, cammina in mezzo al Suo popolo sotto i portici dei nostri cuori, è familiare alle nostre menti, è forza nelle nostre mani generose per rispondere alle grida di incertezza, di sfiducia, di smarrimento che si odono intorno a noi e far udire ancora la Sua voce a coloro che incontreremo: «Sono io, oggi devo dimorare a casa tua».
Credo che questo sia anche il senso da riscoprire della chiesa sinodale, cioè che cammina insieme ai battezzati e a tutti gli esseri umani. Come è stato richiamato all’apertura della vostra fase diocesana del sinodo, la Chiesa è in presa diretta con la realtà, con la drammaticità dell’esistenza di uomini e donne. Occorre opporsi all’atteggiamento di isolamento o di emarginazione che talora la Chiesa sembra scegliere e tal altra subire. Immergersi nella realtà per far emerge quell’umanità creata per amare; porci tutti in ascolto dello Spirito che opera per rendere l’umanità dimora di Dio e divenire così Fratelli tutti!